Il cioccolato nell’inferno di Auschwitz
L’autore del romanzo “Cioccolato ad Auschwitz”, ospite di un incontro sulla Shoah
Il sapore della disperazione. Quello che ha potuto trasformare un ciuffo d’erba, “erba viva” cresciuta nel fango, nel gusto dolce del cioccolato.
E’ successo veramente, oltre 70 anni fa, nell’inferno del campo di concentramento, alla protagonista del romanzo “Cioccolato ad Auschwitz”, Settimia Spizzichino, deportata ebrea italiana, unica donna sopravissuta del rastrellamento del ghetto di Roma.
L’autore del libro, Franco Bruno Vitolo, è stato ospite del Vico sabato mattina, 29 gennaio, in un incontro online con gli alunni, presieduto dalla dirigente scolastica, Luciana Lovecchio, e moderato dalla prof.ssa Mariaelena Carrera.
Per capire l’orrore dei lager nazisti, il prof. Vitolo ha spiegato ai ragazzi l’eccezionalità di questa triste pagina della storia: “La cultura contro gli ebrei esisteva già, – ha detto – basti pensare che il ghetto di Roma viene creato nel sedicesimo secolo, ma i nazisti hanno inventato una cosa unica nella storia: i campi di sterminio, intesi come fabbriche di morte scientificamente costruite per ‘smaltire pezzi’, ossia uomini”. L’obiettivo era lo sterminio, questa è la terribile novità.
Nei lager, però, la morte si incontrava ogni giorno, nella quotidianità dei tanti gesti negati: le ore con i piedi nella neve, i “bagni” comuni senza condizioni igieniche, quell’unico abito leggero per tutte le stagioni. E poi quel “ricciolo” di capelli tagliati che cadeva sul dorso nudo: “Allora capii che la giovinezza mi era stata portata via per sempre” – ricorda Settimia nel libro.
E’ stato, allora, in un giorno come tanti altri, nell’inferno della prigionia, che Settimia ha scorto quel ciuffo di erba nel fango, quasi un miracolo della vita sfuggito alla distruzione nazista. E’ rimasta esterrefatta: “Era erba verde, appetitosa quasi”. Cominciò a mangiarla, masticava lentamente, e le sembrò di assaporare per un istante il gusto di cioccolato.
Dopo la liberazione, il ritorno alla vita e, successivamente, la testimonianza, soprattutto alle giovani generazioni e nelle scuole, perché, come diceva Levi, “se capire è imposssibile, conoscere è necessario”.
“E’ necessario – ha spiegato la dirigente Lovecchio – per far sì che la banalità del male, come lo definiva Hanna Arendt, non galleggi e non si riproduca come un fungo, perché solo la conoscenza può permettere di non ripetere le atrocità del passato, anche se oggi assistiamo ancora ad atrocità terribili, come quello che sta accadendo ai profughi ai confini dell’Europa”.